L’esperto risponde
Tra gioco, sfida e limite:
rischiare in adolescenza.
a cura della dott.ssa Giovanna Di Giacomo
Adolescenza e rischio, due parole spesso associate negativamente.
Come mai?
Se ci pensiamo l’adolescente è per antonomasia in una fase di vita che lo costringe a rischiare molto per capire chi è e chi vorrà essere, per avere una precisa comprensione di quali sono i suoi limiti e i suoi punti di forza, per modellare e restituire al gruppo allargato un’immagine che gli corrisponde. In qualche modo quindi, il rischio potrebbe definirsi anche funzionale in una prospettiva evolutiva.
Quando diventa pericoloso?
Proprio quando ci dimentichiamo di tale complessità, di quanto sia difficile trovare la propria dimensione a quell’età, senza sostenere quindi la naturale propensione al rischio, come spinta evolutiva.
Lasciando che tale predisposizione si contrapponga alla noia, la noia percepita come un’insoddisfazione di fondo, un incontrollabile senso di vuoto che fatica ad essere colmato e che costringe a stare per ore davanti ad una serie tv, ad un gioco sulla Play Station, oppure con le cuffie cronicamente sulle orecchie.
Noia che stordisce e che in qualche modo fa entrare in contatto con quel dolore esistenziale, quella frustrazione (anche evolutiva) a cui l’adolescente non si è mai abituato.
Noia, perciò, che richiede di essere cancellata, attraverso qualsiasi strumento o metodo che restituisca all’adolescente la percezione del suo essere qui ed ora.
È in tale noia che probabilmente possiamo ravvedere una delle cause dell’attuale adozione del rischio in adolescenza, fino ad arrivare al processo che definiamo come “sensation-seeking” (ricerca delle sensazioni), da intendersi come ricerca di sensazioni inedite, intense, complesse e variegate, correlate dalla disponibilità a correre rischi a livello fisico, sociale, legale e finanziario.
È il ruolo assunto ad esempio dal consumo di ecstasy e nuove droghe, dalla sbornia del sabato sera seguita da una spericolata corsa in macchina, oltre ogni limite di velocità.
“Quando la propria esistenza non riesce ad essere una sfida, quando gli obiettivi appaiono sempre più opachi e non importanti, oppure tanto distanti e non condivisibili con alcuno, quando le emozioni sono assopite, il cercare il rischio, il toccare la morte, il vivere emozioni diventa la possibilità, quella vera, quella unica in cui si può e si deve giocare per un attimo la propria sicurezza e la propria vita, a rischio di perderla.” (Croce M.,2000)
Ciò che connota questa modalità di assunzione del rischio è la totale mancanza di significato evolutivo e simbolico che tali comportamenti potrebbero assolvere per l’adolescente che li mette in atto.
Alla luce di queste osservazioni, ricordando ancora una volta che adolescenza, crescita, significa anche assunzione di rischi, è necessario che agli adolescenti vengano proposte alternative costruttive.
Chi si occupa di prevenzione, perciò, dovrà sviluppare azioni che offrono gli adolescenti l’opportunità di acquisire competenze a sostegno della salute e che siano in grado di promuovere e favorire l’acquisizione di comportamenti pro-sociali. Sostenendo anche i genitori, in tale difficile compito.
L’esperto risponde: “Prevenire è meglio che curare…”
a cura della dott.ssa Florina Aloia.
La saggezza popolare ci aiuta a comprendere delle verità che troppo spesso diamo per scontate. Negli ultimi anni vi è una maggiore attenzione su come si affronta un’emergenza. Durante il terremoto di Amatrice per la prima volta in Italia abbia sentito dai media parlare dello psicologo dell’emergenza. Ma chi è questa figura? É uno psicologo specializzato nelle tecniche di contenimento delle emozioni, valutazione del soggetto e soprattutto nella rilevazione dei bisogni. In un mondo che si basa sulla prestazione piuttosto che sulle competenze notiamo che le ansie dei neo genitori si manifestano su diversi fronti. Oggi il troppo leggere, il troppo informarsi o il troppo utilizzo di internet porta ad amplificare i dubbi e le non competenze (come la diatriba ciuccio si/no, ciucciare la mano/dito si o no). Un concetto su cui spesso mi soffermo durante il corso di pronto soccorso pediatrico è che ogni genitore conosce il proprio figlio. Banalità? Forse, ma sembra che non si riesca più ad accontentarsi della naturalezza dell’accudimento che nasce dall’esigenza del genitore di proteggere il proprio figlio e il bisogno del figlio di farsi curare. Perciò capita nella vita di assistere a delle emergenze e chiederci come intervenire. In particolare quando si tratta di piccoli esseri che ancora hanno bisogno del loro supereroe che corra in loro soccorso. Ogni adulto che deve accudire un bambino, di qualunque età, sa molto bene che i pargoli sono bravissimi in pochi secondi a ritrovarsi in situazioni molto pericolose. Quando si parla di neonato o bambino non bisogna confondere la fragilità, intesa come la non capacità di resistere agli urti, con la sua situazione oggettiva di debolezza. Infatti di fronte a un evento fuori dal comune tutti siamo fragili e deboli. Quindi, anche una cosa semplice come prendere il cellulare e sbloccarlo può sembrare molto più difficile ma se una voce fuori campo ti ricorda che il numero di emergenza può essere attivato anche senza il pin ecco che, forse, un frammento di ansia svanisce. É in questo senso che conoscere tecniche sia di pronto intervento (su febbre, convulsioni, manovre di disostruzione e massaggio pediatrico), sia psicologiche ( gestione dell’ansia dell’adulto e/o del bambino, come non far vivere eventi di emergenza come traumi, consolare il pianto “inconsolabile”) può creare una base sicura da cui trovare la forza per intervenire nel momento del bisogno. Altro aspetto su cui focalizzo l’attenzione dei genitori è che dalla loro reazione dipende il vissuto del figlio. Immaginiamo la classica situazione di un bambino che impara a camminare e cade. Vi è sempre una frazione di secondo in cui il pargolo guarda il genitore e aspetta di comprendere la sua reazione. Se l’adulto è sorridente, giocoso e sereno, probabilmente, il bambino non piangerà se non si è fatto male. Mentre accadrà l’esatto opposto se vede ansia, apprensione e paura. Ciò accade maggiormente nell’emergenza, poiché per il bambino chi lo aiuta a collegare la realtà interna ed esterna è il genitore. Quindi l’idea di divulgare e insegnare delle tecniche pratiche serve a portare l’adulto a concentrarsi sul fare e ciò costringe il genitore a reagire e non soccombere. Credo che la paura della solitudine sia il vero timore dell’emergenza. Perciò durante il corso si esorcizza quest’ansia nel contesto di gruppo il quale aiuta a rendersi conto che non bisogna affrontare tutto da soli. Si osservano le dinamiche di coppia e ci si focalizza sulle capacità di tutti i componenti della rete che orbita intorno al bambino. Infatti ripeto sempre di cercare l’aiuto del vicino di casa, del portiere, del negoziante perché anche se non conoscono le manovre possono chiamare il numero unico 112, aprire la porta, portarvi in ospedale. Un uomo ben più saggio di me diceva: “Quasi tutti gli uomini vivono fisicamente, intellettualmente o moralmente entro il cerchio d’una parte assai ristretta del loro essere potenziale. Fanno uso d’una piccolissima porzione della loro coscienza possibile e in generale delle loro risorse spirituali, più o meno come un uomo che contraesse l’abitudine di usare e muovere, del suo intero organismo, soltanto il dito mignolo. Situazioni d’emergenza e crisi ci dimostrano che possediamo risorse vitali assai superiori a quanto supponessimo.” (William James)
L’esperto risponde: “QUELLO CHE LE DONNE E GLI UOMINI NON DICONO”
Autore testo: dottoressa Michela Bolis – Psicoterapeuta e Sessuologa.
Seduta di fronte a me c’è una ragazza, giovane donna, signora, fidanzata, single, moglie, madre. Supera l’imbarazzo iniziale e con coraggio inizia il suo racconto: “Non provo più desiderio”; “Non sento niente”; “Non so se ho mai raggiunto l’orgasmo”; “Finito lui non pensa al mio piacere”; “Non mi sento sensuale, non so come si fa”; “E’ normale poter fare a meno del sesso?”; “Ho paura di sentire male, dolore, fastidio e quindi evito il rapporto”; “Avere certe fantasie è sbagliato?”; “Non capisce che per me non è importante solo la penetrazione, ho bisogno di coccole, abbracci, baci, carezze”; “Sono attratta dalle donne”; “Non parliamo più e pensa che il problema sia che non facciamo sesso”; “Sono impegnata tra casa, lavoro e figli e la sera sono troppo stanca per fare altro”; “Non mi cerca più, avrà un’amante?”; “Desidero o non desidero un figlio?”…
Un ragazzo, giovane uomo, signore, fidanzato, single, marito, padre è seduto davanti a me ed esprime la sua storia: “Non sono certo di sapere come si fa con le ragazze, mi sento goffo e ho paura di fare una figuraccia”; “Non riesco ad avere un’erezione”; “Ho un’erezione ma non la mantengo”; “Eiaculo subito”; “Non riesco ad eiaculare durante il rapporto sessuale”; “Mi piacciono gli uomini”; “Ho certe fantasie ma non le condivido perché temo il giudizio”; “Provo molto desiderio per la mia partner ma sono rifiutato con scuse varie”; “Non facciamo più sesso, forse ha un altro?”; “Ora che abbiamo un figlio c’è solo lui”; “Devo essere sempre “pronto”, se io sono stanco c’è qualcosa che non va”; “Chi deve pensare alla contraccezione?”…
Pensieri, emozioni, comportamenti che tutti proviamo all’interno dell’esperienza sessuale. Spesso non si riesce a raccontare quello che si prova perché la sessualità è ancora considerata un “tabù”, un qualcosa da tenere segreto, sussurrare, evitare di esprimere al partner, agli amici, ai genitori, ai figli…a sé stessi.
Parlare di sessualità è utile, informativo, conoscitivo, rassicurante. E’ superare la vergogna, il timore, il pudore, la censura di esprimere un vissuto personale e/o relazionale che ci provoca disorientamento, confusione, perplessità, ansia, rabbia, paura, desiderio, eccitazione, curiosità, fantasie…
Il benessere sessuale è parte integrante del benessere della persona, coinvolge tutti i sensi, tutto il corpo, non solo l’area genitale, e riveste un aspetto centrale dell’essere umano lungo tutto l’arco della sua vita.
La sessualità coinvolge fattori psicologici-sociali-culturali che contribuiscono alla formazione e sviluppo dell’identità personale ed i ruoli di genere, l’orientamento sessuale, l’erotismo, l’intimità e la riproduzione.
Quello che le donne e gli uomini non dicono non rimane a lungo segreto, ma può essere espresso per dare valore, consapevolezza, importanza al proprio vissuto emotivo e comportare un cambiamento e crescita personale. La sessualità è piacere, relazione, esplorazione individuale e reciproca, comportamenti, conoscenza, accettazione. E’ la libera espressione di sé.
L’esperto risponde: “”Tra mancanza e desiderio”
Autore testo: dottoressa Manuela Mascaro
La frase è di Pablo Picasso: “Dio è, soprattutto, un artista. Egli ha inventato la giraffa, l’elefante, la formica. In verità, Egli non ha mai cercato di seguire una moda, ha semplicemente fatto tutto ciò che aveva voglia di fareʺ. Questa affermazione rimanda al tema del desiderio, è infatti la nostra volontà di muoverci che crea il nostro cammino; tuttavia, quando cominciamo la nostra spedizione in direzione del sogno, abbiamo molto timore, come se fossimo obbligati a fare “tutto per benino”, secondo uno standard convenzionale.
In fin dei conti, se viviamo vite diverse, chi è stato a inventare lo standard universale del “tutto per beninoʺ? Se Dio ha creato la giraffa, l’elefante e la formica, perché dovremmo seguire un modello? Essere coerenti significa dover sempre avere la cravatta in tono con i calzini. Significa essere obbligato a mantenere inalterate, domani, le stesse opinioni che hai oggi. Significa tenere in piedi il pesante castello di sabbia, anche quando sta arrivando l’alta marea. Quando decidiamo di agire verso uno sviluppo è naturale che possano verificarsi difficoltà e conflitti, un vecchio motto recita che per fare una frittata bisogna, prima di tutto, rompere l’uovo.
Desiderare deriva dall’etimo latino «de-sidera» = [mancanza (de) di stelle (sidera, da sidus, sideris)], nel senso di “avvertire la mancanza delle stelle, cioè dei segni augurali”, e perciò “appetire qualcosa che manca”, desiderare è il “sentire la mancanza di ciò che è piacevole, buono, necessario e tendere a ottenerne il godimento, il possesso”.
Il desiderio mette dunque in contatto con la mancanza, una mancanza che non sta nel corpo – come per il soddisfacimento del bisogno – è una mancanza che sta fuori dal corpo, e non è una mancanza di un oggetto, sostanza o comportamento concreto, ma un vissuto, un processo, un’azione psichica che tende verso qualcosa. Il desiderio non ci porta alla soddisfazione immediata di qualcosa e nemmeno ci lascia immobili in attesa di qualcosa. È una spinta che ci mette in cammino verso una determinata direzione. Desiderare è un evento mentale che confronta con i limiti della realtà per accettare il limite del proprio operare. Di conseguenza La conoscenza del limite permette di fare i conti con le proprie risorse, di riuscire a riconoscerle e valorizzarle.
Il limite come condizione del possibile, afferma lo psicoanalista argentino Miguel Benasayag.
La difficoltà a riconoscere e ad accettare il limite sembra ben colludere con le esigenze della società post-moderna di rispondere al richiamo del “nothing is impossible” e al continuo superamento del limite stesso, che porta spesso alla perdita del vero Sè. Di fatto nella società contemporanea dove il valore massimo diventa il superamento dei propri limiti, la valutazione della performance migliore, il cimentarsi in attività e divertimenti estremi, la cultura degli eccessi, sembra inaccettabile accogliere il limite in termini di possibilità.
Il mito di Narciso illustra in maniera puntuale il dramma della perdita di Sè del disturbo narcisistico: Narciso che si specchia nell’acqua è innamorato del suo bel viso e la ninfa Eco risponde ai richiami del giovane, della cui bellezza è innamorata. I richiami di Eco ingannano Narciso, così come lo inganna la sua immagine riflessa, di cui vede solo la parte perfetta, splendida di Sè. Altre parti – per esempio la sua schiena e la sua ombra – gli restano nascoste, non rientrano nell’amata immagine riflessa, ne sono escluse.
Narciso vuole essere quel bel giovinetto e nient’altro, rinnega il suo vero Sè; Narciso vuole congiungersi con la bella immagine. Ciò porta alla rinuncia ad esprimere sè stessi, Non sono infatti solo i sentimenti “belli”, “buoni” e “piacevoli” a farci sentire vivi, a conferire profondità alla nostra esistenza e ad assicurarci intuizioni decisive, ma – spesso – sono proprio quelli scomodi, non adattati, che preferiremmo evitare: impotenza, vergogna, invidia, gelosia, confusione, rabbia.
È proprio nello spazio terapeutico che questi sentimenti possono essere vissuti, compresi e integrati. In tal modo in quest’ambito si rispecchia il mondo interiore, la cui ricchezza va molto al di là del “bel viso”.
Sarà dunque più opportuno parlare con i nostri pazienti di sviluppo piuttosto che di cambiamento in ottica evolutiva e non trasformativa, permettendo di dare valore a quello che già si è, senza stravolgimenti idealizzanti e poco realistici.
Come affermava C.G. Jung :
“L’ombra è malvagia almeno quanto noi esseri umani siamo positivi. Piú ci sforziamo di essere persone buone, eccellenti e perfette, piú l’ombra mostra chiaramente la volontà di diventare buia, malvagia, distruttiva. Quando l’uomo cerca di oltrepassare i propri limiti per raggiungere la perfezione, l’ombra scende all’inferno e si trasforma in demonio. La spiegazione è che nel mondo della natura l’intento umano di elevarsi al di sopra di se stessi è altrettanto peccaminoso quanto la tendenza ad abbassarsi al di sotto di se stessi”.
[…] “Come sarebbe il mondo se tutti fossero adattati? Insopportabilmente noioso!”.
L’esperto risponde: “Dalle emozioni alla relazione”
Autore testo: dottoressa Luisa Monaco
Uno dei servizi che offre l’AIED è la consulenza psicologica individuale per valutare la possibilità di intraprendere un percorso atto a sostenere le problematiche riportate.
Negli ultimi tempi un tema centrale che spesso emerge è la resistenza alle emozioni , che spesso derivano dalla memoria di vissuti antichi e le conseguenze nelle relazioni interpersonali.
Nelle relazioni, si accede all’altro, senza però avere una vera intimità e continuità con l’altro. La diffidenza è compagna di viaggio, apparentemente verso il mondo esterno, ma in realtà ci si protegge da quelle parti di se stessi che si reputano fragili e vulnerabili.Ci si protegge, probabilmente dall’ambivalenza tra una parte del proprio se che desidera amare ed essere amata e quella parte che rimanda alla fragilità e alla paura di lasciarsi andare, inoltre spesso emerge la tendenza a congelare le proprie emozioni, evitando relazioni autentiche per non subirne la possibilità di doversene poi separare
Nel percorso di consulenza,attraverso i colloqui, si costruisce lentamente l’alleanza terapeutica proprio con l’obiettivo di accedere ad un mondo di resistenze e doppi legami. Per questi pazienti le emozioni appaiono come un pericolo. Spesso, una delle reazioni è mettere in atto comportamenti che creano un accesso immediato all’altro, che “divori” la possibilità di stare con l’altro, una modalità per evitare un’intimità profonda, una relazione autentica. Alla paura delle emozioni però si affianca il bisogno profondo dell’altro, il bisogno di essere amata, creando così una sofferenza profonda legata proprio a questa ambivalenza.
In ognuno di questi percorsi proviamo insieme a dare voce alle proprie necessità, in un clima di accettazione profonda della propria storia di vita, molte volte non semplici.
Settimana dopo settimana, proviamo a dare una lettura nuova ai comportamenti e alla ripetizione di schemi, ipotizzando che quelli siano gli strumenti per difendersi dalle emozioni e dalle relazioni.
Molte volte si manifesta, attraverso dei sintomi, la paura di vivere quelle emozioni di cui si sente la mancanza, che in qualche modo si è portati a desiderare ogni giorno ed allo stesso tempo ad evitare. Proviamo a fare ordine, a riconoscere il dolore ed il desiderio.
Non è semplice far fronte ai propri modelli operativi interni, ovvero le rappresentazioni mentali del mondo, di sé, della figura di accudimento e di sé-con-l’altro.
Spesso la psicoterapia rappresenta un’occasione per provare ad accettare se stessi e la propria storia, con un percorso psicologico ricco di resistenze che, nella relazione terapeutica, si sgretolano, dando l’idea di quanto le fragilità possano diventare nuove risorse.
E’ un processo che richiede condivisione profonda, è questo uno degli obiettivi clinici nella relazione terapeutica , che ha lo scopo di integrare emozioni tanto contraddittorie da richiedere la necessità di evitarle.
La relazione terapeutica è un processo che può aiutare a trasformare la ferita in resilienza, dando la possibilità a se stessi di stare con l’altro ed “essere con l’altro”.
L’esperto risponde: “Terapia di gruppo”
Autori testo: dottoresse Giorgia Mattavelli e Ronke Oluwadare
Dalla fine di gennaio presso la sede di AIED è iniziato un percorso di terapia di gruppo secondo la modalità del gruppo operativo di Enrique Pichon-Rivière.
La terapia di gruppo è una forma di psicoterapia in cui il gruppo ricopre due ruoli: quello di setting e quello di strumento di intervento clinico.
Il contesto gruppale costituisce una significativa opportunità di confronto, scambio ed arricchimento degli schemi di riferimento personali. L’insieme di esperienze, conoscenze e affetti con i quali ogni membro del gruppo pensa e agisce, sono diverse ed il processo di condivisione e confronto che avviene durante gli incontri di terapia non è esente da difficoltà. Ma è questo stesso processo che implica trasformazioni e genera apprendimento, sia a livello individuale che a livello gruppale. Il gruppo agisce quindi come potente amplificatore del processo di cura.
Il compito dell’osservatore è quello di verbalizzare gli incontri, individuare ed organizzare gli elementi emergenti del gruppo, per rielaborarli poi con il coordinatore. L’osservazione delle interazioni tra i partecipanti durante gli incontri di questi mesi, mi ha concesso la possibilità di cogliere non solo i cambiamenti di ogni singolo partecipante nel tempo, ma anche dei diversi effetti terapeutici del gruppo. Il gruppo è il contesto in cui il paziente apprende il senso della sua esperienza terapeutica e confronta la sua storia con le altre, confrontando senso e competenza all’interno di uno spazio in cui può sentirsi tutelato e libero, agendo nuove parti di sé al fine di raggiungere un maggiore livello di benessere.
Le emozioni nella stanza di terapia si diffondono con un’intensità tale da far emergere nuove parti del sé, anche dell’osservatore. Ascoltando le storie ed i vissuti durante gli incontri, si entra in profonda empatia con i membri del gruppo e si fa il tifo perchè il gruppo viva e cresca.
Si sente il dolore per un lutto mai vissuto, l’entusiasmo per un nuovo amore, la delusione causata da una separazione o l’emozione per un traguardo raggiunto.
Antoine de Saint-Exupery scriveva che non si vede bene che con il cuore. Durante questi mesi in cui ho ricoperto il ruolo di osservatrice, mi sono convinta che valga anche per l’ascolto.
L’esperto risponde: I nuovi genitori
Autore testo: dottoressa Stefania Oddo
Si è di recente concluso il percorso di gruppo“ I nuovi genitori”, attraverso cui l’AIED, da anni impegnata nel dialogo con gli adolescenti e le loro famiglie, ha voluto accompagnare molti genitori in questa delicata fase della vita.
Galimberti definisce l’adolescenza come quella fase dell’esistenza in cui “ l’identità appena abbozzata non si gioca, come nell’adulto, tra ciò che si è e la paura di perdere ciò che si è, ma nel divario, ben più drammatico, tra il non sapere ciò che si è e la paura di non riuscire ad essere ciò che si sogna”.
Un comune senso di precarietà, dunque, ma, al contempo, una radicale differenza, in cui ciascuna delle due generazioni è impegnata a districarsi nella ridefinizione di una nuova identità.
Il percorso di sostegno alla genitorialità si pone, dunque, l’obiettivo di supportare i genitori nella loro difficile funzione, attraverso la condivisione di esperienze, la mobilitazione di risorse emotive, la valorizzazione degli aspetti positivi dell’esperienza quotidiana e l’accoglimento dei nodi problematici nello scambio con i figli. Esso mira alla creazione di una rete che supporti il cambiamento, accogliendo le sfide dei genitori e permettendo loro di ridimensionare le proprie ansie ed il senso di colpa.
Il metodo degli “autocasi” utilizzato dalle conduttrici, fa leva sulla potenza della narrazione e sul suo valore relazionale, consentendo al portatore del caso di rivedere la propria storia da un’angolazione del tutto nuova e più ricca e regalando agli altri membri del gruppo un apprendimento indiretto, attraverso una riflessione congiunta.
Anche quest’anno, il gruppo è divenuto uno spazio prezioso in cui fosse possibile ascoltare nell’altro parti nascoste di sé .
In fase iniziale, si è piano piano costruita una fiducia di base, sostenuta da solidarietà e comunanza di intenti. Il gruppo portava necessità diversificate, le quali andavano dalla richiesta di soluzioni e di risposte al bisogno di supporto nel tollerare vissuti gravosi, fino all’esigenza di comprendere quali corde interne l’esperienza della relazione col figlio avesse sollecitato, per ritrovare un assetto emotivo più confortevole.
Nella fase centrale del percorso, ogni componente è diventato portatore di ipotesi, soluzioni e prospettive diverse ed, esprimendole, le ha poste a confronto con quelle altrui.
Le conduttrici hanno lavorato sui vissuti, a partire da ciò che i genitori raccontavano. Il focus del lavoro si è spostato, dunque, dall’adolescente al genitore; ciascun partecipante ha potuto riflettere sulle proprie difficoltà e paure rispetto alla possibilità di dismettere il ruolo precedente, mutuando l’ipotesi di “rinunciare con l’idea di sostituire, più che con quella di perdere”.
I genitori hanno attraversato, insieme, interrogativi spinosi. Una volta ridotta la preoccupazione di non essere all’altezza delle situazioni (“non sono un buon padre/una buona madre”; “non so come comportarmi con i miei figli”) ci si è resi via via conto che non fosse necessario arroccarsi su posizioni categoriali (“sono un genitore e, come tale, devo essere obbedito”) maturando una nuova flessibilità. I partecipanti hanno sentito che, nel momento in cui essi cambiavano, in qualche modo anche il rapporto con i figli ne beneficiava.
Si è fatta strada nel gruppo la constatazione che, quasi sempre, una soluzione definitiva non esiste, che ciascuno dovesse trovare dentro di sé la propria risposta e che fosse legittimo e possibile tornare ad esistere come persona oltre che come genitore.
Quale miglior modo di concludere, se non riportare i feedback di alcuni partecipanti ai percorsi di questi ultimi anni:
A: “Anche se non ho parlato molto, ho molto appreso. Non è che da qui usciamo biondi e con gli occhi azzurri, ne usciamo con i nostri difetti, ma con una consapevolezza nuova”.
E ancora..
B: “Io colgo il cambiamento in me e sono contenta di continuare a cambiare. Sono molto più serena e sento di avere una maggiore centratura su di me e sulle mie risorse. Recupero anch’io un’adolescenza che avevo perso”.
Grazie a tutti i genitori che, con coraggio, si sono messi in gioco.
L’esperto risponde: “Conosciamo l’autostima: il lavoro di gruppo”
Autore testo: Dott.ssa Giulia Favaretto, Psicologa-Psicoterapeuta in formazione
Si è concluso da poco il gruppo “Conosciamo l’autostima” un corso di cinque incontri organizzato da AIED Milano. Una iniziativa che voleva essere un’occasione per conoscere qualcosa in più di sé stessi e così è stata. Si sente parlare spesso di Autostima e il più delle volte accostata alla parola mancanza. A pensarci bene una persona non manca mai di autostima, in quanto produciamo costantemente auto- valutazioni: è spesso come ci giudichiamo che ci fa vivere male il rapporto con noi stessi e gli altri. Così quei giudizi generalizzati che rivolgiamo a noi stessi influenzano negativamente le nostre esistenze; è possibile, invece, trasformare un dialogo negativo interno in un dialogo positivo interno che tenga conto anche delle eccezioni e dei contesti. Il viaggio ha consentito di riflettere su tematiche come “l’apprezzamento di sè”, “l’accettazione di limiti ed errori”, “l’affetto sincero per sé stessi” e “l’attenzione ai propri bisogni e l’importanza di comunicarli efficacemente all’altro”, passaggi sicuramente utili da considerare per concedersi nuove e valide possibilità relazionali. Un’ atmosfera di confronto che ha portato i partecipanti a mettersi in gioco, esplorando anche posizioni di cura dell’altro e, per rispecchiamento, di sè, riscoprendo potenze che talvolta, per varie ragioni, restano negate: “La nostra paura più profonda non è di essere inadeguati. La nostra paura più profonda è di essere potenti oltre ogni limite (…) E’ la nostra luce, non la nostra ombra a spaventarci di più. E quando permettiamo alla nostra luce di risplendere, inconsapevolemente diamo agli altri la possibilità di fare lo stesso. E quando ci liberiamo dalle nostre paure, la nostra presenza automaticamente libera gli altri” (Mandela)
Al prossimo viaggio, vi terremo aggiornati!
L’Esperto risponde: AIED per Progetto Anacaona
Autori testo: Sibilio Fernanda, Chiara Altamura , Ronke Oluwadare e Roberta Milazzo.
Gli incontri formativi coordinati da AIED per il progetto “Comunità Latino Americana e Istituzioni Italiane unite per aiutare le donne a uscire dal silenzio” si sono focalizzati sulla formazione dei funzionari consolari e delle promotrici sulla gestione della Relazione di Aiuto. La prima tappa di questo percorso è stata un’analisi e una condivisione del significato della parola violenza e delle reazioni emotive che l’argomento violenza può causare . Con tempi diversi nei due gruppi, la verbalizzazione e la narrazione delle emozioni di ciascun partecipante ha portato a creare un clima di rispetto, fiducia e partecipazione, fondamentale per il contesto di apprendimento. Il percorso è proseguito con l’accompagnare il gruppo a dare spazio e nuovo senso ai propri vissuti e alle proprie esperienze, a iniziare a riconoscere e valorizzare proprie risorse e propri limiti. Comprendendo che l’accettazione e la rinnovata comprensione del proprio vivere e del proprio sentire sono il prerequisito chiave per l’accettazione e la comprensione dell’altro. La meta di questo percorso è stata rappresentata dalla presa di coscienza da parte del gruppo di un cambio di prospettiva e di uno nuovo apprendimento su come vivere e gestire una relazione di aiuto, sana per entrambi i componenti della relazione.I partecipanti si sono ‘portati a casa’ un minor senso di solitudine e di responsabilità perchè ogni membro ha provato sulla propria pelle di far parte di una rete molto forte. Le coordinatrici AIED hanno riscontrato una attiva partecipazione durante tutti gli incontri, tanta attenzione, propositività e desiderio di fare rete. Lo stile di conduzione scelto ha rivestito un ruolo di facilitatore e testimone di un processo di apprendimento circa le capacità di ciascuno da utilizzare quando si ha a che fare con il tema della violenza .
Sottoriportati i Decaloghi che i due gruppi hanno costruito come piccola guida da interiorizzare per vivere al meglio la relazione d’aiuto.
Decalogo dei Funzionari
- Io sono qui per fornire opzioni alle persone
- Rispettare le scelte delle altre persone
- Il diritto di sentire e di crearsi spazi di decompressione
- Gestire le emozioni
- Non sentirsi colpevole
- Mantenere alta la propria autostima e non lasciarsi coinvolgere dalla negatività dell’altro
- Leggere/Analizzare il proprio bisogno di dare senza limiti
- Condividere come modo di prendersi cura di sè e darsi valore
- Accettazione
Decalogo delle promotrici
- Fare rete (“Siamo dei canali”)
- Valorizzare l’altro
- Non pretendere l’altro faccia/pensi come noi (RISPETTO)
- Ascoltare come modo per dare importanza all’altro
- Accettare l’altro
- Attenzione a come ci sentiamo noi
- Aspettare/Dare tempo all’altro
- Stabilire dei confini
- Non giudicare/Non criticare
- Non assillare/Non fare pressione/Non indagare troppo
- Non sostituirsi
- Attenzione al linguaggio non verbale (il nostro e il loro)
- Essere chiari, leali e franchi
- Essere umili (“Io sono accanto a te, siamo insieme”)
- Non esercitare il potere del ruolo (“Non ne so più di te”)
- Non fare false promesse/Non illudere
- Tutelarci /Riconoscere i propri limiti
- Non farsi coinvolgere
- Empatia/ Rispecchiamento/Fragilità
Il riferimento alla componente culturale sulla Violenza può essere sintetizzato dallo schema qui riportato :
L’esperto risponde: “Educazione alla sessualità e all’affettività” il progetto Aied nelle scuole di Milano
Autore testo: dott.ssa Altamura Chiara, psicologa-Psicoterapeuta in formazione presso Aied Milano.
“Il percorso ha coinvolto tutte le classi del secondo anno e si è articolato in due incontri di due ore ciascuno. Il primo incontro è stato condotto da un’ostetrica e una psicologa ed ha fornito informazioni specifiche riguardanti il ciclo mestruale, l’apparato genitale maschile e femminile, le malattie sessualmente trasmissibili, i metodi contraccettivi, i metodi d’emergenza, l’interruzione di gravidanza, la fertilità e le disfunzioni dell’apparato genitale maschile.
Il secondo incontro è stato condotto da due psicologhe (di cui una già presente al primo incontro) e si è focalizzato sul riconoscimento del legame tra sfera affettiva e sessualità, affrontando nel dettaglio le seguenti tematiche: l’innamoramento e la coppia, la comunicazione in famiglia in merito al tema dell’affettività e della sessualità, masturbazione, identità di genere, orientamento sessuale, stereotipi di genere, interruzione di gravidanza, legalità nella sessualità e prime esperienze sessuali.
In tutte le classi sono stati trattati i vari argomenti in maniera completa, ma ogni classe ha avuto una dimensione propria, per cui le operatrici hanno accolto le richieste degli alunni e si sono focalizzate maggiormente su alcune tematiche specifiche differenziandosi classe per classe.
Nel complesso i ragazzi si sono mostrati sin da subito interessati all’argomento e partecipi nel porre domande e chiedere informazioni aggiuntive. Durante i primi incontri è emersa una pregressa conoscenza circa alcuni metodi contraccettivi (soprattutto il profilattico), le malattie sessualmente trasmissibili, il ciclo mestruale e l’apparato riproduttivo maschile e femminile. Nonostante ciò, i ragazzi hanno chiesto molte informazioni sull’utilizzo di alcuni contraccettivi che non conoscevano (cerotto ormonale, anello vaginale e spirale) e su alcune malattie sessualmente trasmissibili a loro meno note (candida, herpes genitale, sifilide). Una maggiore disinformazione pregressa si è riscontrata circa i metodi di emergenza, l’interruzione di gravidanza e la perdita della verginità. In una classe i ragazzi hanno chiesto di parlare di circoncisione, aborto spontaneo e rottura dell’imene.
Per quanto riguarda le tematiche affrontate durante i secondi incontri, è emerso che i ragazzi non si sentono sempre liberi di parlare di sessualità, in una classe è stato particolarmente difficoltoso attivare una riflessione di gruppo, in quanto i ragazzi si sono mostrati molto inibiti e timorosi nell’affrontare questo argomento. Molti vivono l’argomento come un tabu, soprattutto in famiglia, (anche se una minoranza di loro dichiara di parlarne tranquillamente con i genitori), ne parlano spesso con i coetanei, che però non sempre forniscono risposte adeguate alle loro richieste. Internet risulta la fonte più utilizzata per la ricerca di informazioni circa sessualità e affettività. Anche il tema della masturbazione si affronta con difficoltà, soprattutto per le ragazze che si sentono giudicate e non libere di esprimere le proprie pulsioni sessuali. In molte classi questo argomento ha dato il via a riflessioni molto interessanti sugli stereotipi, in una classe i ragazzi hanno citato momenti storici che hanno portato a cambiamenti culturali che hanno profondamente modificato il ruolo delle donne e degli uomini. Si riscontra anche una grande confusione circa la perdita della verginità. In molte classi i ragazzi hanno dichiarato che è possibile perdere la verginità con la masturbazione. Queste affermazioni hanno permesso di riflettere insieme su questo argomento, arrivando a considerare anche l’aspetto psicologico della perdita della verginità.
Per quanto riguarda l’orientamento sessuale e l’identità di genere, emerge una grande apertura sull’argomento. I ragazzi si attivano molto ed espongono diverse riflessioni. La maggior parte di loro considerano l’omosessualità al pari di qualsiasi altro orientamento sessuale, e non mostrano pregiudizi al riguardo. In una classe alcuni ragazzi chiedono di approfondire la tematica delle adozioni e del matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Nell’affrontare le tematiche inerenti soprattutto alla sfera affettiva, è emerso che i ragazzi vivono la sessualità come intrinsecamente legata all’affettività. Per la maggior parte di loro i rapporti sessuali non possono essere slegati dalla componente affettiva poiché la fiducia è una componente indispensabile per la sessualità e la si crea solamente tramite un rapporto affettivo profondo. In alcune classi le ragazze hanno espresso il timore di perdere la relazione affettiva dopo il primo rapporto sessuale.
Per concludere, gli interventi hanno permesso di fornire ai ragazzi maggiori informazioni e, nonostante alcune conoscenze pregresse, i ragazzi stessi hanno dichiarato di avere ricevuto informazioni nuove e di aver chiarito alcuni dubbi sulle conoscenze già acquisite. Molto interesse è stato mostrato anche verso i temi riguardanti l’affettività, argomenti che i ragazzi sentono molto vicini a loro, ma di cui difficilmente parlano.
A conclusione del percorso, abbiamo somministrato dei questionari di gradimento, strumento di valutazione per noi indispensabile per migliorare i nostri interventi.
I risultati ottenuti, volti a promuovere responsabilità e educazione alla prevenzione, ci confermano e ci sostengono nella necessità e utilità dei nostri interventi.”
L’esperto risponde. “Cos’è la follia? La follia è la normalità”
Intervento a cura di: dottor Fabio Tognassi