IL PESO DI MIO FIGLIO: La violenza ostetrica e il bisogno di dolcezza e comprensione
La fatica e il dolore. La fatica di dover fare le equilibriste, per tenere assieme famiglia, lavoro, aspirazioni di vita e di carriera. Il dolore di perdere qualcosa, qualcuno. Senza trovare quella comprensione e quella dolcezza che servirebbero. Di violenza ostetrica e ginecologica si inizia a parlare per fortuna apertamente, da qualche anno. Serve alle donne che ne sono vittima a sentirsi meno sole; serve, forse, a modificare mentalità e atteggiamenti di sanitari, uomini e donne, che sembrano rimasti fermi a quel “tu donna partorirai con dolore” (e continuerai a doverti dolere per tutta la vita).
Una testimonianza è quella di Angelica Vasile, consigliera comunale milanese che inizia ora il suo secondo mandato, eletta con il Pd. Ha 37 anni, una laurea in Economia e finanza, un dottorato in Sociologia economica. “Abbiamo bisogno di più dolcezza e comprensione”, così ha voluto intitolare questa sua riflessione. Un diritto, non una concessione.
Abbiamo bisogno di più dolcezza e comprensione
Ad agosto di quest’anno, mentre mi accingevo a impostare la mia campagna elettorale per le Comunali di Milano, scopro di essere incinta. Una notizia che lì per lì mi fa piacere, poi sale la paura di non riuscire a gestire la gravidanza, il mio primo figlio e la campagna, che è sempre molto stressante. Ho paura di non farcela, ma mi riprometto di dare il massimo e di non dire a nessuno della gravidanza, perché magari poi le persone pensano “si vuole fare eleggere in Comune e poi si prende la maternità con i nostri soldi?”. Non esiste un congedo di maternità in politica, in Consiglio comunale sei retribuito a gettone di presenza, quindi le assenze – per qualsiasi motivo esse siano – non sono pagate, ma so che il pregiudizio nei confronti delle donne incinte è sempre dietro l’angolo quindi inizio la mia campagna con questo piccolo grande segreto dentro di me.
Le giornate si fanno sempre più dense di appuntamenti, inizio a lavorare alle 6 del mattino nel silenzio della casa e finisco ogni sera tardi fra vari eventi elettorali, con enormi sensi di colpa nei confronti del mio primo figlio che è ancora piccolo. Ma mi ripeto che è un momento, passerà in fretta, ora devo dare il massimo.
A fine agosto la gravidanza si interrompe. È un misto di sensazioni difficili da descrivere, mi dico che fa niente, succede a molte coppie, e uso volutamente la parola coppie, perché non credo che a soffrirne sia solo la donna, a dirmelo è il dolore negli occhi del mio compagno. Guardavo l’ecografia e mi chiedevo “Perché te ne sei andata piccola creatura? Perché non sei voluta restare con noi? È colpa mia? Ero troppo stressata?”. Non lo so, ma non ho tempo per pensare, devo dare il massimo per la campagna elettorale, guardare quello che ho di bello nella vita e cercare di dimenticare. Fisicamente ero a pezzi, psicologicamente cercavo di gestire tutto facendo tacere il dolore. La campagna elettorale non è certo uno di quei momenti nei quali incontri dolcezza e comprensione, anzi, è una lotta durissima per le preferenze.
La campagna elettorale finisce, e decido di fare una visita di controllo per accertarmi che tutto sia nella norma. Mi siedo e la dottoressa mi chiede perché fossi lì. Le rispondo: “Vorrei fare una visita di controllo, a fine agosto ho avuto un’interruzione involontaria di gravidanza”. Lei mi risponde: “Interruzione volontaria”, io ripeto che era stata involontaria, lei ribadisce che si dice interruzione volontaria… e allora uso quella parola dalla quale forse stavo tenendo le distanze per non farmi implicare emotivamente: “No, non è stata volontaria, è stato un aborto spontaneo”. Come fa male quella parola, aborto. Iniziavo dopo un mese e mezzo a prenderne atto, ed ecco arriva l’altra domanda: “Quanto pesava suo figlio alla nascita?” Io davvero non ricordavo, ed ero forse un po’ confusa. Le dico: “Non so…forse 3 kg?”. E la dottoressa replica: “Come, non si ricorda? Le madri di solito si ricordano quanto pesano i loro figli alla nascita”.

Già, le madri, quelle brave? Quelle che non si stressano troppo? Quelle madri più giuste di me? Perché io non ricordo? Perché non riesco a visualizzare quanto pesasse mio figlio?
Torno a casa e piango molto, piango per il dolore di aver dovuto parlare di quella interruzione involontaria, di quella perdita, che anche se ti spiegano che non era ancora un bambino formato, tu vivi come tale. E piango perché non riesco a ricordare quanto pesasse mio figlio.
E allora, mentre mi sforzo di ricordare, ripercorro le tappe che hanno portato alla sua nascita, arriverà prima o poi il ricordo del peso: dentro di me vedo la sala parto, ricordo bene i numeri dell’orologio di fronte a me, sono entrata in sala parto alle 17 e sono uscita alle 13 del giorno dopo, ricordo bene quel dottore grande che a un tratto si è messo sopra di me e ha fatto la manovra di Kristeller (e io ho pensato che non sarei uscita viva da quel posto), ricordo tanti medici intorno, troppi, e la stanchezza infinita di non riuscire più a spingere, l’ostetrica che diceva “la signora non collabora” e io guardavo quella piccola finestra lì in alto ripetendomi che prima o poi sarebbe finita. Ma perché non stavo collaborando? Cosa dovevo fare più di così?
Ricordo che non ho sentito piangere il bambino e che non l’ho neanche visto perché l’hanno portato via, e poi, dopo che hanno ricucito la lacerazione, ricordo che mi hanno portata in una stanzetta. Anche lì c’era un orologio, e ricordo bene i minuti che sono trascorsi, erano 45. Quarantacinque minuti durante i quali chiedevo esanime se potessi vedere il bambino, dove fosse e il perché non me lo portassero. Nessuno sapeva nulla. Il mio compagno era al mio fianco, distrutto, anche questo lo ricordo bene. Con le poche forze rimaste ho chiesto ancora una volta dove fosse il bambino e un’infermiera ha cercato nel database e mi ha risposto: “È in terapia intensiva”. Un colpo al cuore: perché era lì? Cosa era successo? E perché nessuno ci aveva detto nulla? Avevo bisogno di dolcezza e comprensione.
Ho detto che volevo andare dal mio bambino, l’infermiera mi spiegava che non potevo, che avevo la flebo, che il parto era stato difficile. Mi sono alzata e sono andata a cercare mio figlio inseguendo le insegne con la scritta TIN: Terapia Intensiva Neonatale. Quando siamo arrivati nel reparto mi hanno spiegato che i medici incontrano i genitori solo alle ore 15. Anche lì c’era un orologio, lo guardavo ossessivamente, mentre mi aggiravo tra le incubatrici cercando il mio piccolo: l’ho trovato, l’ho osservato in silenzio, piangendo. Pensavo di averle terminate quelle lacrime. Alle 15.10 i medici non erano ancora arrivati, eravamo tanti genitori in attesa di parole di conforto, ancora una volta ho raccolto le forze e sono andata dove l’accesso era vietato. Ai medici l’ho detto: siamo in tanti ad aspettarvi, eravamo tanti genitori in attesa di dolcezza e comprensione.
Il bambino, mi hanno spiegato, aveva respirato il liquido amniotico e aveva una spalla lussata, manovra necessaria per farlo uscire.
Ho ripercorso la sua nascita, ma il peso non è tornato alla memoria, in compenso ricordo tanti altri numeri che hanno caratterizzato il parto e la sua nascita, e tanti sensi di colpa dopo il parto: potevo partorire meglio? Dovevo spingere di più? Respirare meglio?
Non lo so, però so che tutte le volte che parliamo con qualcuno non sappiamo cosa abbia vissuto e passato, e che dietro a un “non ricordo il peso di mio figlio” magari c’è una lunga storia, ma magari non c’è. A dire il vero non so neanche ora quanto pesi mio figlio, direi abbastanza a giudicare dal dolore che ho ai polsi dopo un po’ che lo tengo tra le braccia.
La visita con la dottoressa si è conclusa bene, mi ha chiesto gentilmente se volessi un altro figlio. Le ho risposto: “Non lo so.” Avrei voluto dirle che ora sono molto stanca, che è stata una campagna elettorale difficile, ho bisogno di elaborare la perdita e togliere i dubbi che possa essere stata colpa mia, ho bisogno di tanta dolcezza e comprensione. Ma non sono riuscita a dirgliele queste cose, forse avrei dovuto. Credo che tutti abbiamo bisogno di più dolcezza e comprensione perché siamo fatti di emozioni e fragilità. I numeri sono importanti, e io li amo anche parecchio, ma non sono nulla senza le storie. E tutti noi siamo storie fatte di emozioni, sentimenti di cui dobbiamo prenderci cura, con dolcezza e comprensione.
Post Scriptum: Non è stato semplice, ma alla fine ho deciso di raccontare questa esperienza per condividere il mio dolore, che non è più grande o più importante di quello di altre persone. Un dolore che spero mi possa aiutare nell’essere ancora più attenta e avere maggiore capacità di ascolto per fare sentire meno sole le persone. Con la speranza che le loro storie siano vissute in una società capace di esprimere anche dolcezza e comprensione.
Articolo originale: “Il peso di mio figlio. La violenza ostetrica e il bisogno di dolcezza e comprensione” di Oriana Liso (La Repubblica)

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